Alla fine degli anni 90 mi chiesero di lavorare al progetto per una mia mostra sulla città di Matera. La mostra non si fece ma restano la mia ricerca e un testo che Mauro Galantino scrisse per introduzione alla mostra.
Testo di Mauro Galantino
Tornare in una città dopo trent’anni produce sempre un piccolo straniamento. Ritornarci in un viaggio simulato, guidato dal taglio delle inquadrature di Alberto aumenta il disagio.
L’equivoco sarebbe semplice da chiarire, le foto di Muciaccia non sono Matera come nessuna rappresentazione corrisponde totalmente alla memoria di un frammento di realtà.
Ma in questo caso ho provato a prolungare, coscientemente, l’equivoco, a guardare la realtà dalla condizione simile al risveglio, quasi in controluce, per non perdere alcune connessioni, alcune sovrapposizioni pericolose.
In questo ricordo il fotografo è anche un “ compagno di strada “, la città è l’Italia meridionale che ho lasciato, le inquadrature sono architetture e mi restituiscono il mio lavoro in forma di distanza.
Non ho quindi alcuna possibilità di essere equilibrato e nessuna voglia di esserlo.
Così parto dalla distanza, dalla sensazione che come architetto mi provoca il lavoro di Muciaccia, che mi ha sempre provocato, sia nei risultati delle sue interpretazioni dei miei edifici, che in quelli di architetti universalmente acclamati dei quali Alberto ha restituito l’opera.
Il suo modo di procedere non è estraneo al risultato, ma ne spiega solo una parte. L’inquadratura nasce sempre da uno spaesamento dell’autore, Muciaccia, di poche parole, ne usa parecchie per capire, o meglio per “farsi portare “. Le passeggiate intorno e dentro l’architettura sono puntuate dalle sue domande, non sul risultato formale definitivo, ma sulla struttura del procedimento seguito.
Gli interessa conoscere la relazione tra le cose di un progetto, in definitiva a che distanza gli elementi sono collocati nell’immaginario dell’autore, per poterne riprodurre un simulacro analogo.
La distanza tra gli elementi di architettura è anche la la natura della scelta che li ha selezionati. Come ha recentemente ricordato Siza in una conferenza a Brescia, la distanza è la ragione della scelta e dell’alterazione degli elementi. In ogni edificio rivivono “frammenti amorosi “ di altre opere, di altri maestri (“ questo è un Le Corbusier, questo è un Aalto….), quello che ne ristabilisce la rinascita, ciò che sancisce il “ nuovo “, sta proprio nella struttura di riordino, nel soffio dell’insieme. Il linguaggio in architettura non esiste, esiste solo l’architettura.
Così per Alberto bisogna conoscere per riconoscere e poi tentare la trasfigurazione nell’inquadratura per restituire una nuova unità, una nuova realtà parziale carica del significato specifico di un frammento capace di parlare dell’insieme.
Questa impossibilità della fotografia di essere totalizzante, di produrre una risposta, per così dire “ Hegeliana “della memoria, credo sia un cruccio per il nostro autore.
La metafora di una risposta unitaria sul mondo che inevitabilmente si frantuma in infinite inquadrature senza l’ “ euforica “ sintesi cinematografica credo che in fondo non piaccia ad Alberto, ma ne fa uno strumento adeguato, un procedimento etico, nel quale il “ particolare “ non esiste, esiste solo tensione verso l’insieme, irraggiungibile nel mezzo fotografico, può essere solo ricollocata come codice genetico di relazione che anima ogni inquadratura e la rincorre con la precedente.
Quindi per Alberto è quasi una un’ossessione evitare gli ‘effetti speciali’ , evitare la fascinazione della superficie, della risonanza e del relativo stupore, evitare l’oggettualizzazione che in foto d’architettura è l’analogo della pornografia rispetto al corpo umano.
E’ evidente una vena critica autobiografica in questa diffidenza, di fronte alla seduzione dei dettagli e dello scintillio di alcune superfici architettoniche contemporanee è semplice per me ritrovare la fobia maturata dall’autore in anni di inquadrature solitarie nel suo studio quando era soprattutto un fotografo di oggetti.
Ogni disciplina Ha i suoi effetti speciali, in definitiva quando si dà a vedere ciò che si teme di poter vedere. Il brivido sospende la ragione e la distanza tra noi e l’oggetto per un momento diventa abissale. Tocchiamo il bracciolo del cinema e la realtà ci conforta. Spielberg non è male ogni tanto.
Trovare queste tracce di tecniche consolatorie nel lavoro di Muciaccia è arduo. Non che non esistano, nessune è perfetto, soprattutto se il proprio lavoro stabilisce una controforma di intenzioni altrui, ma il filo della sua ricerca è piuttosto quello di coltivare la curiosità a detrimento dello stupore. Così, credendo di parlare di fotografia, il lavoro con Alberto mi ha spesso portato a riflettere sulla mia disciplina, sull’architettura. Perché mi restituisce intatte le preoccupazioni, le incertezze della formazione e selezione degli elementi, dell’idea che li riunisce in unità, del molteplice risultato percettivo che rischia continuamente di cancellarne la struttura fondativa.
E a queste preoccupazioni precede una domanda che è sempre meglio non fare, perché facciamo quello che facciamo, come procede la costruzione del senso della cosa, o dei metodi per produrre la cosa che ci accingiamo a realizzare.
Nel caso di Muciaccia, già fotografo di still-life, già fotografo di danza e documentarista di cultura materiale, la scelta di diventare fotografo di architettura contiene parte della spiegazione.
E’ l’oggetto del lavoro che stabilisce la regola procedurale e in definitiva la costruzione del senso.
Fotografare l’architettura comporta un’adesione e una distanza dal mondo, incorpora la precisione chirurgica dello still-life con l’ombra del sole che lentamente si muove senza sosta sulla facciata. La foto di architettura riproduce lo straniamento dechirichiano di uno spazio strappato alla natura per realizzare il sogno e l’inquadratura della natura che lo sostiene in un duplice rimando in cui è difficile stabilire chi è quadro di cosa.
La foto d’architettura restituisce l’impossibilità di rappresentare la vita se non fermandola, in un’istantanea nella quale qualcosa è più fermo di qualcos’altro e con questa piccola differenza l’artificio della vitalità si riproduce.
E’ così che le foto del mio amico mi restituiscono l’importanza del nostro lavoro di architetti, come costruttori del quadro in cui la vita si svolge in parallelo e non sovrapposto, adeguato e sempre in ritardo, assoluto e fragile.
Ma se devo essere sincero, Muciaccia rappresenta un caso particolare di fotografo, che non si esaurisce in una “ specializzazione “ , anche se dall’ultima scelta per l’architettura ricava una specie di riordino generale del modo di lavorare.
Usando un paradosso lo definirei un “ fotografo di gruppo “, perché il termine di “ paesaggio “ e “ architettura “ mi sembrano ancora imprecisi o meglio mi sembrano i mezzi coni loro apparati di regole interne. Anche se i riferimenti, le affinità, lo studio di altri fotografi italiani riemergono inevitabilmente per la caratura dell’opera di Basilico o di Ghirri, Muciaccia segue un percorso più silenzioso, preoccupato di stabilire relazioni e prossimità secondo un passaggio che dalla lezione degli spazi interni dell’architettura si dilata sull’ambiente antropizzato.
Il caso della ricerca materana rappresenta un campione, che per dimensione, occasione pubblica e scale di riproduzione della fotografia ( negativo, ingrandimento, pannello, fotolito, catalogo ) sembra più maneggevole da comprendere. Per me che ho seguito innumerevoli ricerche “ senza scopo “ di Alberto, raccolte di appunti su Roma, Messina, Bari, la Puglia, questo ultimo rappresenta solo un precipitato occasionale di un’attenzione disinteressata e continua che lo accompagna da molti anni.
Nel percorso di Matera si ritrova la semplicità di una scelta che comporta un’opinione generale con la quale guardare i fenomeni formativi di questa città. Una strada tesa tra due paesaggi apparentemente naturali che aprono e chiudono la mostra, un prima e un dopo solo in relazione al senso di percorrenza e tra loro un catalogo di relazioni multiple tra i soggetti della scena urbana.
“ Fotografo di gruppo “ perché dalle esclusioni Muciaccia trae molta più forza connotativa che dalle descrizioni. I gruppi scelti si raccolgono dentro l’obiettivo lasciando fuori la città che trasgredisce il patto della “ relazione “, per questo la moderna Martella appare e non invece la città della speculazione. Le esclusioni non sono stilistiche, gli edifici di Ajmonino e i suoi ascendenti, gli edifici civili degli anni trenta, per quanto stralunati mantengono il patto di “ relazione “ che la straordinaria foto “ gruppo di cave con facciata “ sintetizza nell’ingresso a Matera.
Il patto non è rotto dalla “ differenza “, con l’inevitabile piccola o grande violenza del “ nuovo “, ma dall’estraneità. Dall’essere indifferenti alla natura del suolo, dallo smarrimento della continuità tra piani di facciata e piano stradale, dalla perdita del sottile e sempre più lontano ascendente della natura che la cava trasforma in materiale per ricomporre una natura artificiale con una eco dell’archetipo.
“ Fotografo di gruppo “ perché con l’inquadratura Alberto seziona le relazioni faticose che il progetto ha realizzato, soprattutto se si tratta di un progetto apocrifo, di una metafora civilizzata dei processi di natura, di una addizione dei progetti, mettendo più vicini gli elementi che sono stati voluti vicini e che la distrazione, l’uso, la stanchezza della ripetizione hanno allontanato nella memoria degli utilizzatori.
Ne risulta un ritmo sequenziale di quadri, non una sequenza propriamente detta, nei quali l’incompletezza e la disunità restano apparenti, i soggetti della scena non sono propriamente un paesaggio, perché infinite fratture li tengono a distanza, l’imprecisione e l’assenza di disegno unitario consentono alla storia di manifestarsi per quello che è : un’entità solo a posteriori. Ma il patto di “ relazione “ appare proprio in virtù dell’assenza di unità, di una continuità che è contiguità di progetti egualmente pensati, di scala tra materiale e tettonica involontariamente coerente.
Muciaccia riesce a restituire questo carattere dell’urbano come foto di gruppo, simile a quelle di tutti noi con i compagni di scuola, soggetti ma collettività, tutti simili e comunque diversi, lo ha fatto nella recente mostra romana dove i soggetti erano dichiaratamente “ architettura “ , lo ripropone a Matera dov’era più difficile seguire la stessa tesi.
Mi spingo un po’ più lontano per capire se esista un rapporto possibile tra le ricerche sulla culturale materiale svolte da Alberto in passato, tra la documentazione dei rituali sacro profani pugliesi e il modo di avvicinare le cose fisse della scena urbana che connotano il suo lavoro recente.
L socialità come assenza potrebbe essere la risposta, l’architettura come scatola volutamente vuota, come i rituali sacri, da riempire di vita.
Le foto di Muciaccia sono spesso senza persone, riprese all’alba, restituiscono un’inquietudine metafisica che lascia da un’altra parte le preoccupazioni civili e politiche dell’autore. Alberto le condensa in simulacri come il luogo della fucilazione dei nazifascisti a Matera, ma non ne parla.
I suoi quadri non hanno persone ma sono impensabili senza di esse, trasmettono tutti l’attesa dell’inizio, forse in questa leggerissima sfumatura l’autore lascia trasparire quel tanto di visione del mondo in cui la speranza resta l’irriducibile e sano fastidio ai tentativi di autocompiacimento.