intervista con Cesare Colombo 10/02/06 11:53 Caro Cesare
Ti ringrazio delle domande perché aiutano a chiarire a me stesso il significato di questa mia doppia intrusione : – il dover osservare e registrare con immagini la realtà di uomini e donne che soffrono l’enorme disagio del dover dipendere da altri per le proprie esigenze primarie. – la seconda intrusione è nella natura stessa del lavoro che ho cercato di portare a termine, e cioè una sorta di sfida con me stesso nel cambiare le regole del mio approccio al soggetto in fotografia, passando dalla visualizzazione di temi d’architettura e di paesaggio al confronto con la fotografia di documento che deve per definizione raccontare una storia che ti coinvolge in modo diverso e che deve essere sostenuta da una sceneggiatura.
Prima di rispondere alle tue domande c’è una premessa di cui voglio fare partecipe sia te che Andrea ed è una questione di cui non ho parlato con Andrea quando mi ha dato incarico per questo lavoro anche perché lui conosce la mia lontananza(e non solo) dalle questioni religiose e credo non abbia mai pensato che io potessi raccontare le attività con il protagonismo pur meritevole dei vari padri o laici che tanto si dedicano. Non ho mai neanche preso in considerazione l’idea di rappresentare le attività della Compagnia a Roma, o più esattamente me ne sono fatto un cruccio iniziale per mia abitudine a corrispondere alle richieste in modo professionale, ma quando sono entrato in contatto con le due realtà incontrate ciò che ho voluto raccontare è una astrazione a cui tu già rispondi nella prima e seconda domanda. E in questa astrazione ho provato ugualmente disagio perché avevo voglia di conoscere e verificare in modo diretto le storie che avevo davanti ma il mio peccato era quello di essere comunque dall’altra parte.
Cesare Colombo :
“ L’ambiente del Centro Astalli, con la sua astratta pulizia ‘ospedaliera’ è un simbolo visivo. Ci appare come una sorta di porto o ricovero estremo, dove noi non vediamo l’odissea di una fuga… ma di cui immaginiamo la drammaticità. Si può dire che sono i valori tonali, le ombre sofferte di questi spazi, ad ofrirci una metafora tonale di quel che noi non vediamo, ma sappiamo. Una scelta voluta, questa tua, o inconscia? “
A.M. :
Hai ragione io volevo che si immaginasse la drammaticità e forse è l’unica scelta consapevole e l’ho maturata dalla prima visita al centro Astalli : alle 15 e 30 pieno centro di Roma, edificio storico, impalcature di restauro, coda di africani sotto le impalcature in attesa, ingresso di servizio su strada, piccolo atrio con box di accoglienza e assegnazione del ticket per l’accesso, scale che portano sottoterra in un piccolo vano di attesa per il bagno, sulla destra lunghissimo corridoio stretto con tavoli,sedie e rivestimenti ospedialieri (mi sembrava di entrare con Carla Cerati in un manicomio),stanze vuote con gli stessi arredi ma con i muri scrostati che si affacciano sul corridoio e la luce fredda e anonima dei neon, non tutti accesi. E subito mi sono chesto ma perché se aiutiamo questi poveracci in fuga da guerre e miserie quando gli offriamo un pasto caldo e una doccia lo facciamo in un posto che traspira disagio o meglio occultazione. Lo facciamo ma di nascosto : la gente non deve vedere.E questa non è una critica ai gesuiti è proprio un atteggiamento generale della società rispetto al problema dell’accoglienza.
Cesare Colombo :
“ Volti e corpi oscuri, senza nome. Un’attesa opaca, ciò che noi definiamo con fastidio ‘i tempi morti’. Esattamente il contrario dei ritratti, della restituzione di un carattere, di una Persona attraverso la propria cosciente rappresentazione. Perchè hai rinunciato a cogliere dei veri ritratti? “
A.M. :
si hai ragione ho rinunciato a cogliere dei veri ritratti ma è stata una scelta imposta dal rispetto che immediato ho provato nel guardare quei volti e nel sapere, dopo, che molti hanno paura che le immagini su internet possano dare problemi(se non la morte) ai familiari nei paesi d’origine. Che fare : il fotografo umanitario che si interessa alle singole storie e cerca di far parlare e raccontare per carpire fiducia e poter tornare a casa con il bel ritratto di somalo o sudanese ? e comunque ero lì per un incarico di chi li assiste e non per altro. Allora son tornato al centro più volte cercando di osservare e rubare qualche immagine tenendo la macchina bassa e senza inquadrare con precisione per restituire quella metafora tonale ( proprio perché non doveva ritrarre singoli ma l’insieme ) di cui tu parli. Poi visto che alcune immagini con questa tecnica non riuscivo a ottenerle, ho chiesto a un’amica somala di aiutarmi con alcuni suoi amici e ho cercato di ricostruire le immagini che più mi avevano
colpito e un esempio è la foto del somalo seduto faccia al muro in una delle salette di mensa.
Cesare Colombo :
“Al contrario tra i bambini del Centro Arrupe è la luce (un tipico mattino italiano di sole) che sembra percorrere in modo vitale altre stanze, pur disadorne, modeste. La vitalità istintiva dei primi anni di vita è irrefrenabile… eppure qui appare frenata. Già pervasa di una precoce serietà. I sorrisi sono avvolti da brevi onde di amarezza. Sono apparsi così anche a te, nel mirino, questi piccoli-adulti?“
A.M. :
Piccoli adulti, caro Cesare, è proprio la definizione giusta ed è la prima che ha dato subito anche mia moglie. È stato sicuramente più facile, mi è bastato andarci due volte e restare presente alle attività svolte, cercando di non essere sempre in piedi ma anche seduto con loro e i volontari, per raccontare quei volti che gioiscono degli affetti e attenzioni ricevuti, ma conservano lo sguardo di una vita già vissuta, dove per vissuto si intende aver visto coi propri occhi o attraverso quelli delle madri.
E proprio loro le madri mi hanno permesso di lavorare meglio e senza tanti problemi, perché il centro Arrupe è una casa famiglia dove le fortunate persone che soggiornano si sentono ormai in una situazione protetta e quindi più disponibili.
Cesare Colombo :
“Nell’apparenza visiva delle persone si affollano segnali ambigui e sentimenti indecifrati e indecifrabili. Un fotografo autore, come te, cerca di scoprire o evidenziare i simboli ‘ottici’ di uno stato d’animo. Attraverso gesti, sguardi, movenze che improvvisamente potrebbero rivelare il mistero umano, o almeno una sua piccola frazione. I tuo lavori più conosciuti riguardano l’architettura, gli spazi enormi che invadono il nostro territorio. Puoi dirmi invece qualcosa a proposito dei tuoi dilemmi quando sei alle prese con la figura umana? “
A.M :
Per risponderti devo tornare alle premesse e una in particolare : la sfida. Purtroppo bisogna specializzarsi in qualcosa per sopravvivere e tra le
varie eperienze in fotografia mi sono fermato a lungo nella foto di architettura. Penso che essere fotografo voglia dire avere una passione e un bisogno di raccontare con le immagini il proprio vedere al di là delle parole.
Quando ho iniziato, primi anni settanta, ero convinto che l’unica fotografia possibile fosse quella di reportage perchè era nella natura stessa della fotografia e perché il suo fine è editoriale e deve trasmettere questa grande opportunità di far conoscere il mondo nella sua totalità. E poi la fotografia era legata al bisogno di documentare le ingiustizie nella società. Sono sempre rimasto legato a questa definizione della fotografia senza mai praticarla se non in rarissime occasioni professionali e di più nell’intima protezione della mia camera oscura. Ho cercato di lavorare nei settori che più corrispondevano al mio carattere. Ma non ho mai smesso di sfidarmi sul lavoro e quindi ho accettato questo incarico.
Mi chiedi quando sono alle prese con la figura umana che dilemmi ho ? non so se sono dilemmi o difficoltà. So di avere anche un grande amore per il ritratto e a Roma nei primi anni ottanta ho fatto parecchio lavoro di ritratto perché lavoravo per il teatro e avevo molte opportunità. Questa risposta come vedi è più difficile perché credo ancora di dover imparare tanto in fotografia e spero di poter affrontare nuovi percorsi.
Un caro saluto Alberto Muciaccia